Orfani di Ibra

Nella faggeta

P., col quale condivido la fede rossonera, non avendo compreso che la squadra ha soltanto cambiato campionato sprofonda in una crisi esistenziale senza precedenti.  Il tapino racconta con sguardo allucinato di intere notti passate in preghiera davanti al poster di Franco Baresi per impetrare la sua benigna protezione sulla nostra area di rigore. Sussurra di aver visto gocce di sudore colare dal parastinco di Gattuso che custodisce come una reliquia. Con fierezza, dice di aver cancellato dalla memoria del decoder ogni e qualsiasi canale sportivo,  e si lancia in un appassionato resoconto non della partita di Coppa ma dell’ultima puntata di un’ignobile telenovela. Nel tempo libero, spende fortune  in acquisti di vecchi obiettivi macro e studia approfonditamente la flora alpestre.
A metà settimana, la tristissima prima di Champions lo immalinconisce definitivamente suscitandogli il desiderio di annichilirsi in cupe faggete. Suggerisco la classica cresta Fregarolo - Montarlone.

Dopo una ridicola serie di equivoci su chi dovesse portare l’auto, ci troviamo alle 7.30 del sabato.  Gromit, in attesa dell’esito dell’appello, resta a casa a scontare la squalifica. Mentre esco mi guarda con una condiscendenza che prelude ad orribili vendette. Il poster di Ibra pende malinconico sul muro della cameretta.
Cielo e umore sono maccajosissimi. I miei viveri si riducono a una tavoletta di cioccolato che sbatacchia solitaria nella tasca del Lowe.

Al Fregarolo ci sono svariate centinaia di automobili. Un tristo figuro ci chiede le nostre intenzioni e precisa che per i funghi sul versante avetano occorre pagare il tesserino, mentre sul lato Val Trebbia la raccolta è libera.  Subito dopo, domanda se abbiamo idea del motivo per cui,  negli ultimi 7 anni nessun fungo sia stato trovato in Val d’Aveto. P. si imbarca in una complessa spiegazione sul legame tra funghi, maree e venti dominanti. Quando aggiungo alcune considerazione sull’influenza delle macchie solari l’omino si commuove e ci ringrazia tra le lacrime, regalandoci il tesserino nr. 1.  Dopo 10 anni di dubbi finalmente ha trovato un senso a ciò che l’ottundeva.  

Ci avviamo di buon passo su e giù per i saliscendi della cresta. Non avendo nulla da mangiare, cado quasi subito in preda ai morsi della fame. Provo ad accelerare, sperando in un rapido ritorno alla trattoria, ma P. decide di dedicarsi ad un’approfondito studio fotografico sulla mazza di tamburo, sola specie scampata alle retate del mattino.  Solo al 123mo fungo conclude che trattasi di soggetto poco fotogenico, stanti colore, luci e umore della giornata.

Arriviamo così in vetta, dove ingoio in un solo boccone la cioccolata mentre fingo stoicamente il più totale disinteresse per la focaccia e gli affettati che P., senza alcun ritegno, assapora lascivamente proprio sotto i miei occhi. Lo punisco accennando distrattamente alla mitica quadripletta di Van Basten nella Champions del 1992. Il poveretto scoppia in singhiozzi incontrollati. Il boccone gli va di traverso; per salvarlo devo utilizzare la manovra di Heimlich; solo il filmato del mitico coast-to-coast di Weah contro il Verona riesce a fargli riprendere i sensi.  Tornato in sé, si rende conto che l’attuale centrattacco è, tragicamente, Pazzini; la consapevolezza lo fa accasciare definitivamente al suolo.

Non appena si riprende, imbocco razzente come un cane da trifola la via del ritorno. Solo dopo aver immortalato le più svariate specie di insignificanti fiorellini il mio compare si decide ad muoversi verso quella che sogno come un’oasi nel deserto.

L’ostessa ci esamina con sguardo severo. Solo dopo accurata scansione ci concede, sdegnata, una Moretti. Le imploro un panino. Come? Col formaggio, se avete qualcosa del posto… Lo sguardo della baffuta mi fulmina. Dopo qualche minuto il figlio sbrincio fuoriesce dal retrobottega con due fette di micca intervallate da un belpaese dal colorito malaticcio. Allucinato dalla fame, scambio lo strabico per Vissani e gli chiedo lumi sulla preparazione di  alcuni timballini di pasta visti su un libro di cucina.
Per invogliarci a consumare ancora qualcosa, la tenutaria precisa che è tardi e che deve ancora andare a funghi. Osservo ingenuamente che ad andar per funghi alle 3 del pomeriggio si rischia di non trovarne più. Mi fulmina con lo sguardo (perfettamente ortogonale) precisando che i funghi suoi, non li tocca nessuno.
Mentre un’allegra comitiva, nel dubbio, ordina un bottiglione di bianco insieme con quello di rosso, salutiamo la ruspante Joy Division della trattoria e saliamo a bordo della Turbinosa.

Con delicatezza, durante il viaggio evito ogni discorso sui destini del vecchio diavolo.  In un oretta di curve e controcurve, siamo di nuovo a casa.
La quarta giornata incombe minacciosa.
Scendiamo e, con le orecchie basse, andiamo incontro al nostro destino di orfani di Ibra 

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