Ritorno in Appennino

La telefonata di P. mi arriva a sorpresa a metà pomeriggio del sabato, proprio mentre schivo per miracolo una clavetta sfuggita al controllo di una ginnasta croata con la faccia di Ibrahimovic ed il cervello di Cassano.
Inopinatamente l’espertissimo scialpinista mi invita a proporre io stesso, per l’indomani, una qualche destinazione - purché non troppo lontana.
Dentro di me ringrazio di questa limitazione, che mi impedisce di autoimpormi altri 500 chilometri dopo quelli percorsi per raggiungere una surreale palestra modello piazzata nel nulla dell’unico paesino toscano espressamente ignorato da tutte le guide turistiche,
Ne butto lì una mezza dozzina.
L’appennino è tornato agibile, clima secco ed aria mossa suggeriscono la possibilità di panorami come Dio comanda. Nella rosa dei candidati, P. sceglie l’Alfeo dalle Capanne di Carrega.

Alla sera apro il frigo in cerca di qualcosa da cacciare sotto i denti durante la dita.
Lo popolano sparute cibarie malassortite. Rifletto per un attimo sulla possibilità di preparare un paio di panini con ketchup, cetrioli sottaceto e nocciolato Novi; dubito sull’abbinamento tra cetrioli e salsa, e quindi lascio perdere.
Conto di rifarmi con opportuni acquisti in quel di Torriglia il mattino dopo.
In ogni caso saranno circa 6 mesi che in gita non mangio un boccone, quindi tanto vale.


La sveglia, stavolta, è signorile: ci si vede alle 7 sotto casa mia (!).
Invece che nel solito autogrill di Altare, sosta colazione in un  baretto di Torriglia con una barista del tutto incongruente con luoghi ed orario.
Il locale Alimentar Center è,  però, chiuso: P. si offre di cedermi metà di un non meglio precisato sfilatino che giace, in attesa dell’inevitabile, a fondo zaino.
La Polo arranca su per la strada del Brugneto e ci porta in qualche modo alle Capanne, che sono ancora all’ombra. La temperatura non è esattamente amichevole; imabldanziti, ci dirigiamo a tutta birra sullo sterrato che si dirige verso le pendici del Carmo.


La reflex nuova di zecca trasforma P. in un epigono del buon vecchio Folco, inducendolo ad una serie di cineserie utili a  riprendere in primo piano alcuni irrilevanti vegetali del luogo.
 

Il percorso – circa 17 km tra andata e ritorno, è una feroce presa per il fondelli .
Per andare da 1400 metri e salire a 1650 si somma l’incredibile cifra di 900 metri di dislivello, accumulati grazie ai saliscendi fatti all’andata ed al ritorno.



A parziale consolazione, si è quasi sempre in cresta o in posizione panoramica; e così abbiamo da un lato la Corsica e dall’altro il Rosa.



Come da tradizione della ditta arrivo in vetta arrancando su per l’ultima infame rampa ed evito accuratamente di mangiare.

 





Rimbalziamo indietro chiacchierando delle complessità della vita coniugale, che sarebbero – poi – le complessità dalla natura femminile.


Incrociamo svariati gitanti che fortunatamente andranno ad infestare la cima solo dopo che noi l’abbiamo gustata in beata solitudine.
Comincio a soffrire delle consuete allucinazioni: scambio un faggio per un distributore wireless  di birra alla spina; 

 
subito dopo ordino allo stupito P. un canadian whiskey con ginger-ale.

La mia costanza viene però premiata al traguardo.
La stamberga delle Capanne di Carega è aperta, un incredulo oste ammette, tra i tormenti della tortura, di avere la Moretti.  Lo costringiamo a servicene un paio. P. tiene fede alla parola data e mi passa una onirica baguette col prosciutto. La divoro con un tale gusto da fargli venire appetito.  L’oste ha un sussulto d’orgoglio e si rifiuta di confessare l’esistenza nella sua dispensa di un qualsivoglia tocchetto di formaggio stantio. Con astuzia machiavellica, P. butta lì con nonchance… e un po’ di salame?.  Il nostro è preso in controtempo. Gli scappa un sì biasciato a fatica. E’ così costretto a servirci un piattino di un discreto affettato con contorno di focaccia fatta in casa.  Preso dallo sconforto per aver ceduto così stupidamente, ce lo lascia al prezzaccio di € 2,50.-
Dopo aver raccolto ed ingoiato le briciole rimaste sulla tovaglia, saltiamo sulla improponibile macchinetta.  Il cruscotto sembra un albero di Natale, spie mai viste si accendono a segnalare guasti di ogni sorta. Le ignoro, e la spingo coraggiosamente verso casa.

Per una volta, si torna con la luce.
Il frigo si è ripopolato, da Moconesi arriva una formidabile torta di zucca che rappresenta il felice e degnissimo epilogo di questa giornata appenninica.

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