Tartarino sull’ Alpe (di Succiso)


La consueta trattativa settimanale si sviluppa lungo traiettorie imprevedibili.
Sento per telefono P., il quale sin dai tempi delle scuole elementari manifesta un cieco quanto inspiegabile amore per l' Alpe di Succiso, della cui salita nell'estate 1983 io ricordo solo una fetida rampa per prati e la totale pralinatura di sterco di capra della vetta.
Sicuro che verrà respinta con sdegno, butto lì l'idea, precisando – ad ogni buon conto - che non è mia e che io vado volentieri dovunque.
La cosa prende inopinatamente piede; dal conclave esce questa strampalata montagna che riesce nell' impresa di abbinare pendenze himalayane a temperature centrafricane.
Leggo, insospettito, di passaggi attrezzati e di creste aeree. P. mi rassicura smentendo l' esistenza di difficoltà degne di tal nome e garantendo che quando mai ci fossero (???) sarebbero comunque evitabili.
Per non saper né leggere né scrivere, comincio ad elucubrare itinerari alternativi, che individuo nel già percorso sentiero per l'innocuo quanto seccante Passo del Casarola.

La sveglia delle 5.20 non suona, nel dormiveglia scorgo un casuale 5.33. Rinuncio ad ogni e qualsiasi tipo di pulizia personale nonché colazione, preparo una superbomba da 2 lt. di Polase e mi avvio all' appuntamento con P; il quale, puntuale come la cartella della cassa avvocati, alle 6 spunta contromano manco fosse la Sampdoria. Decolliamo verso l'autogrill di Sestri, dove S., per esser certo di non farsi trovare, prima di infilarsi al bar ha nascosto l' allibita Renault rossa nel posteggio riservato ai TIR.
Dopo 10 minuti di vane ricerche lo vediamo che spunta bello fresco dal Grillparzer, sbandierando una cartina illeggibile (specie se hai lasciato a casa gli occhiali). Pretende di estrapolarne percorsi che esistono solo nel suo fervido marasma creativo; P., esperto per vocazione e definizione, gela tutti stabilendo che la sola partenza possibile è, e dev'essere, dal Passo del Cerreto. L. approva con granitica convinzione, scopriremo poi il perché.
In auto chiedo 3221649872 volte a P. di confermarmi che effettivamente il tratto attrezzato dal Passo di Pietratagliata è innocuo. Avute adeguate rassicurazioni dò il mio consenso a tentare l'improba salita.

Al Cerreto, solita mezz'ora di installazione scarponi e protesi assortite, dopodiché si parte, bellamente in piano.
Per faggi e prati arriviamo in una mezz'oretta ad un non meglio chiarito passo che si poteva, ovviamente, raggiungere con la macchina; e lì comincia la salita.
Cento metri di rampa, e come nelle migliori famiglie, il gruppo si sfalda.
Sopra di noi, un inguardabile prato steso per il verso sbagliato ha ottenuto il grottesco nome di Monte Alto; visto dal vivo, è un ossimoro, ma tanto basta a M. ed A. per perdere il controllo di sé e decidere di inerpicarsi verso quella che solo un volenteroso quanto anonimo tracciatore dell' APT ha avuto la faccia tosta di definire montagna. Sulla mia decisione di svicolare, non incide ovviamente il fatto che guide e relazioni parlino di terrificanti tratti attrezzati sparsi qua e là sulla cresta tra la no-mountain e l' Alpe di Succiso.

Vado sul classicissimo ci vediamo al colle, per tale intendendosi quello di Pietratagliata, dove già so trovarsi il mio incubo di giornata: un tratto attrezzato, quello sì, inevitabile (o quasi).
P. mi segue, preoccupato.
Mentre vaneggio immaginandomi intento a forzare, slegato ed in spregio di ogni più elementare norma di sicurezza, passaggi di 6c sopra immani precipizi, P. per consolarmi mi racconta di quando vide coi binocoli due poveri ghiacciatori precipitare e morire proprio dall' Alpe di Succiso.
Immagini terrificanti si susseguono nella mia mente; ancora una volta, mi commisero, novello Tartarino costretto ad un' impari lotta con l' Alpe.
Nel frattempo, però, a questo colle arrivar bisogna; lo facciamo arrubattandoci su per un sentiero alquanto infame.

Al passo, l'umore viene definitivamente abbattuto. A destra, un passaggio attrezzato; a manca, un' altro ancora più tremendo; al centro, una lapide in ricordo di una ragazzina morta proprio qui.
Sola via di fuga, il sentiero che divalla verso la Padania. Entro nell' ordine d' idee di tentare un rientro a piedi via Castelfranco Emilia, dove ho uno zio comunista e matto. In preda al rimorso, P. mi mostra come aggirare il passaggio chiave.
Trattasi di risalire in mezzo a cespuglietti di mirtilli fino in cresta. Per affrontarlo al meglio, inizio una fase di severo training autogeno a base di albicocche secche e cioccolata.
Attendiamo un bel po' l'arrivo degli eroi del M. Alto; li squalifica, definitivamente, il fatto che spuntino da un innocuo sentierino in piano, anziché dalla punta dell' aereo gendarme che sorveglia il valico.

Eroicamente, affronto in solitaria, senza bombole né assicurazione, il pendio di mirtilli. Scopro così che esistono prati strapiombanti; trovandomi ormai nella zona della morte, raggiungo col fiatone la cresta; donde si vede con chiarezza che il terrificante passaggio che a tutti i costi avevo voluto evitare era:
a) Alla portata di qualsiasi soggetto autonomamente deambulante;
b) Dotato di apposito sentierino di aggiramento;
c) Molto più comodo della nuova via da me aperta lungo il Blueberry Step.
Sfibrato dall'eroica quanto inutile impresa, mi trascino sottoritmo su per la cresta. Miracolosamente, arrivo in cima.

Dopo un proforma di pranzo, proseguiamo verso un colletto tra l'Alpe di Succiso ed un ignobile panettone di erba e pietre che qualche perdigiorno ha immaginato essere una montagna, piccandosi anche di darle un nome; trattasi di tale, prescindibilissimo, M. Casarola.
Anche davanti a quell' incompiuta di montagna, che, Dio solo sa come, qualcuno ha immaginato possa avere una vetta, i meschini e cinici cacciatori di cime non resistono: sfrecciano entusiasti verso l' inutile mammellone.
Vista la discesa che ci aspetta – praticamente una corda doppia per prati – decido di risparmiare tempo ed articolazioni: senza la minima esitazione, comincio a ruzzolare verso le sorgenti del Secchia; fonti che, per la verità, essendo di volgarissima acqua, non mi interessano per nulla: la mia mente è ormai interamente occupata dallo struggente pensiero di un' arcadica magnum da 5 litri, madre di tutte le Moretti ed eldorado di tutti gli assetati escursionisti.
In fondo all' osceno prato verticale, arriviamo in zona merendera, dove ci raggiunge il resto della truppa.
P. imbocca risoluto la via del ritorno; noi passeggiamo sinché io ed L. non cominciamo ad essere inspiegabilmente attratti da una forza magnetica misteriosa, che ci chiama a sé e, come un invisibile elastico, ci fa accelerare sempre di più il passo. Scopro con vergogna energie che non immaginavo di avere; quasi di corsa, arrivo, trafelato, davanti al bar del Cerreto, in cerca della mia pinta gemella.

L. approfitta del ritardo di S., che ha le chiavi dell' auto, e, per le brevi, senza nemmeno togliersi gli scarponi si infila nella stamberga; io, che non posso esimermi, batto il record di cambio gomme dei box Ferrari; velocissimo penetro nel locale ed intimo all' oste di dichiarare all'istante dove abbia nascosto bottiglie, lattine e bombole per la spina.
Ottenuta un'ampia ed esauriente confessione, infilo la mano nella vetrinetta frigo ed arraffo una squallida bottigliazza da hard discount, che mi viene poi venduta a ben 4 euro.
Al tavolino L., superate le prime due porzioni di gnocco fritto, attacca eroicamente una complessa struttura a forma di fetta di torta, che presenta al centro un diedro vinto, sinora, solo in artificiale.
Mi appresto a seguirne il fulgido esempio quando P., accorato, annuncia provenire dalla sua consorte massicce dosi di tuoni e fulmini e mi supplica di imbarcarmi al più presto sulla Toyota nel tentativo di evitare la condanna a trent'anni di fucilazioni nella schiena senza condizionale.
Abbandono mestamente i miei sogni di gloria.

Dio non è dalla nostra: la discesa verso Aulla è funestata da un camper che procede a ritmo di esequie; la breve illusione di aver eluso la coda della domenica si infrange a Chiavari.
Arrivato a Recco vedo scivolare dietro i finestrini la festa della focaccia. Tento di mugolare qualcosa per impietosire P., ma lui non fa sconti, e tira dritto verso il suo amaro destino.
Mi catapulto giù dalla macchina sotto lo sguardo sarcastico di Gromit, che - ignaro della sfumata occasione di rivedere il suo perduto amorazzo appenninico - inganna l'attesa di tempi migliori sfottendo il bastardino del dirimpettaio sampdoriano.
Arrivo a casa, stanco, ma felice e fiducioso.
Lo so, lei è lì che mi aspetta, pronta ad accogliermi dopo una dura e difficile giornata.
Nulla può più dividerci, ora.
La prendo, le poso delicatamente le mani sul collo, mi avvicino, e la stappo. Ora, finalmente è mia.
Dio benedica la Moretti.

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