Alberto corre dalla sua Marta. Ma non abbastanza.


I segnali c’erano tutti, e sin dall’ inizio.
A partire da martedì, sul forum si apre una trattativa che - nel breve volgere di 5 giorni e 103 post - strema S. al punto da convincerlo ad affidarsi al fato; per la destinazione si va al sorteggio.

Nel pomeriggio di venerdì, mentre sono in piena crisi di fame, mi chiama dunque S. il quale annuncia il verdetto delle tre Moire. Si va alla Cima di Marta. Stranito, cerco di far presente che sabato devo assolutamente essere a casa per le 19 e che, in caso contrario, la sola opzione che mi rimarrebbe è la fida Svalbard. Senza quasi più glucosio ad alimentare i neuroni, faccio un calcolo improbabile e mi convinco che possiamo farcela. Chiamo casa, giuro, spergiuro e rassicuro. Esco tardi, salto cena e vado a una riunione. Finisco di far lo zaino all’una. Gromit – il solo ancora sveglio - è a dir poco indignato per questa caciara.

Alle 5 del mattino, le cose prendono subito una piega storta. Con mira perfetta, mi sparo in un occhio il liquido conservante delle lenti a contatto. Trattasi, in sostanza, di acqua ossigenata. Trattengo a stento ululati e imprecazioni. Penso al soffitto della Cappella Sistina e a tutti i Santi che lo popolano. L’ occhio, intanto, sembra quello del Signore degli Anelli.
Metto le lenti a contatto e vado in cucina. Cerco di tornare in me. Preparo con amorevole cura il solito catetere di Polase. Soddisfatto, contemplo la sacca – ancora una scrollatina per sciogliere la polvere magica e… voilà, il tubetto si sfila; la sacca si schianta a terra. Dal beccuccio comincia ad uscire un fiotto di Polase. Ripenso al soffitto della Cappella Sistina; stavolta la mia attenzione si sofferma su Angeli, Troni e Dominazioni.
Asciugo alla bellemeglio, fiducioso di poter salvare almeno un litrozzo del mio propellente preferito. In effetti, la sacca è quasi del tutto piena. Mi guardo intorno, speranzoso. In casa mia, di solito ci sono quantità industriali di bottiglie di plastica illuse che qualcuno le porti all’ apposito contenitore. Qualche zelota ha però avuto un rigurgito di coscienza e non c’è verso di trovarne una, salvo una desolata e minuscola boccetta da mezzo litro. La riempio, concludo il tour guidato dell’ Empireo e corro a Genova Est.

Sono le 6 meno 5, c’è una zimma fetida e nessuna traccia di S. né degli altri compagni di avventura. Quando sono alle soglie dell’ ipotermia, finalmente arriva; con lui L. e W. Andiamo a caricare M. e si parte.
Entriamo in autostrada. Si va con una certa calma. Sulla salitella dopo Voltri ci superano alcune Ape Cross strombazzanti. Ad Andora veniamo doppiati da un pullman di postelegrafonici di Cinisello Balsamo che già ci aveva sorpassato all’ altezza dei Piani d’ Invrea. Poco prima di Arma di Taggia, è il turno di un paio di pensionati Italsider sulle loro Graziella anni ‘60.
Al casello, S. inserisce il biglietto nell’ apposito macchinario, ma il sistema si ribella. Ora e località di ingresso sono incompatibili; dobbiamo pagare da Islamabad.

Ma ecco, inatteso per definizione, il miracolo: uscito dall’ autostrada, S. riscopre il pilota che è in lui.
Trattasi, ovviamente, non del teutonico eptacampione, né – tantomeno – dell’ algido Niki: è invece il melanconico Rubens che prende i comandi e si lancia, razzente, verso la Colla Melosa. Le macchina streppella e buttezza. Le curve si levano di mezzo per lo spavento, i rettilinei sfilano veloci… e paf! Lo specchietto sinistro non c’è più.
Ma il vero campione non molla, e rimessi i cocci nella sede, imitiamo l’ indimenticabile Villeneuve (quello vero) portando comunque al traguardo quel che resta della Renault. Che, nel frattempo, per lo spavento, da rossa è diventata bianca.

La gita sarebbe senza storia, se non fosse per la neve, che rende decisamente pericoloso il percorso un tratto della strada militare che sfila verso le pendici dei nostri due innocui cocuzzoli.
Memore di precedenti guai (e soprattutto dalla piega storta della giornata) decido che non voglio rischiare: invito i compagni di gita a proseguire senza di me e torno sui miei passi. Mentre faccio una «sosta tecnica» dal Rifugio Grai li vedo rispuntare dalla curva. Penso abbiano trovato grane peggiori e che abbiano deciso per il Pietravecchia. Non è così: tornano per continuare la gita insieme. La soluzione, peraltro, è a portata di mano: risaliamo la spalla dietro il rifugio, saliamo sul M. Grai e di lì restiamo sulla larga cresta sino al Colle S. Bernardo. Ancora poco e arriviamo alla base della Cima di Marta. Saliamo in cima. Foto di rito, pranzo.

La maccaja, come sempre nell’ultimo mese, guasta panorami e prospettive. Sgranocchio un misero paio di granetti, e ripartiamo. Rapida discesa e risalita al Balcon di Marta. Decido per un sonnellino mentre gli altri vanno a visitare le interiora della montagna.

Ripartiamo lungo la strada militare, chiacchierando del più e del meno. All’ attacco del sentierino di discesa, S. e M. decidono di far un salto su un ignobile conoide erboso che qualche invasato ha deciso di chiamare cimadinonsoche.
Io, L. e W. imbocchiamo invece la discesa: fingiamo di parlare del più e del meno, ma in realtà stiamo tutti pensando, come un sol uomo, alla stessa cosa. Una biondissima, freschissima, frizzante e rinfrescante Moretti. Che, puntuale, ci premia alla Melosa.
Mentre le stiamo assestando il colpo di grazia, ritorna alla base anche la cordata di punta, che dimostra di condividere i nostri elevati ideali alpinistici.

Saliamo in macchina, ma è tardissimo. Sono quasi le 6 e tento di parlare con la mia signora, alla quale comunico che siamo un po’ lunghi. La risposta è fredda come il vento della Siberia. Mi isolo in me stesso, cercando di ricordare se ho ancora tutti i picchetti della tenda e qualche bomboletta di scorta per il camping gaz.
Rubens, intanto, è tornato al volante. Le curve si trasformano in linee spezzate; i rettilinei in piste di decollo. A farne le spese, stavolta, è lo stomaco di W., che decide di ribellarsi quando ormai siamo a fondovalle.
Gli cedo il posto della suocera e mi rattrappisco nel mio angolino sul sedile posteriore, mentre cerco di ricordare se ho ancora qualche vecchia Knorr per sopravvivere sino a lunedì. La doccia, forse, potrò farla in ufficio.

Cerchiamo, in quattro, di rappattumare una spiegazione sul perché sia più furbo andar veloce in autostrada e con garbo sulle strade di montagna piuttosto che il contrario. Esorcizzato dalla nostra inesorabile logica, il demone barrichelliano abbandona finalmente S., il quale fieramente porta la lancetta del tachimetro, per alcuni attimi, vicino ai 110 all’ ora riuscendo addirittura a superare un paio di NSU Prinz ed una Duna familare. Il computer di bordo, sconvolto da questo cambio d’ identità del pilota, gli chiede di esibire i documenti. Da casa, intanto, arrivano SMS raggelanti.

Arriviamo finalmente a Genova Est. Cambio macchina da box Ferrari. Chiedo agli amici di dire una preghiera per l’ anima di un uomo ormai condannato.
Mi accorgo che, per fortuna, fa caldo. Al limite posso anche dormire sotto i portici della parrocchia con pile e giacca a vento. Alle brutte, mi infilo nello zaino.

Mi fiondo a Recco. Raccolgo in casa un tegame di polpettone e corro in parrocchia al ritiro per i genitori dei comunicandi inziato solo un’ ora e mezza prima.
Il racconto che precede, per fortuna, convince la mia dolce metà che in fondo non è tutta colpa mia. Me la cavo con un rimbrotto.
Intanto dal forno cominciano ad uscire focacce col formaggio e pizzate.
Il vecchio Milan esce indenne dall’ Olimpico e arraffa il 18mo scudetto, alla faccia di Rockerduck Moratti.
Stappo un Gutturnio frizzante al punto giusto.
La vita, in fondo, non è così male.

 

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