Proditorio agguato a Prariundo

Le previsioni per il fine settimana – Pasquetta compresa – volgono al peggio. 
Inaspettatamente, M. annuncia di aver organizzato con C. una gita per il venerdì santo, ultimo giorno di bel tempo.
Senza pensarci due volte, prendo ferie, a ciò sentendomi moralmente autorizzato dalle scrivanie deserte di colleghi già smaterializzatisi per ferie da film dell’ orrore.
 
C. dà forfait. Decidiamo di andare comunque. 
Ancora provati dal tremendo giro fascista del Gottero apparecchiatoci da S., rinunciamo alla salita dal mare a Punta Martin in favore della più fresca AVML dal Faiallo a Prariundu (con mie malcelate intenzioni enogastronomiche).
Memore dell’ imbarazzante amour fou per S. sbocciato nei boschi del Gottero, dichiaro che Gromit stavolta rimarrà a casa, in castigo.
M., certo della sua abilità da domatore, vanta però certezze che mi convincono ad imbarcare il fedifrago.

Al Faiallo, temperatura perfetta; peccato, anche stavolta, per la maccaja. 

Saliamo il Reixa e passeggiamo verso la meta parlando dei massimi sistemi.
Lungo il percorso, incontriamo l’ intero catalogo delle calzature da non indossare in montagna. Spicca una ineffabile signora di mezz’età con Birkenstock e calzini blu; incocciamo poi in un noviziato tutto rigorosamente in scarpette ginniche alla moda, diretto a Cascina Troja in quel di Masone.
L’ultima del gruppo se ne sta seduta tutta sola poco dopo l’ Argentea. La sua solitudine è spiegata dai lancinanti canti di chiesa che intona (?) per gli sbigottiti alberelli che, se potessero, fuggirebbero insieme con i cinghiali già datisi alla macchia. Pure noi allunghiamo il passo per allontanarci dalla cacofonica nipotina di Assuracetourix .

Gromit intanto adotta un bassissimo profilo, trotterellando con aria angelica una decina di metri davanti a noi. Scopriremo solo dopo trattarsi di una miserabile sceneggiata, studiata a tavolino con un cinismo degno di un gambler professionista.

Arrivati a Prariundo, cominciamo a tirar fuori i panetti; poi, ci guardiamo in faccia e non ce la sentiamo più di far finta di niente.
Sarà aperto? Vado in avanscoperta. In un batter di ciglia, i viveri rientrano negli zaini; ipocritamente giuriamo e spergiuriamo che li consumeremo stasera a casa.
L’idea iniziale è di un piattino piccino picciò di tagliolini al sugo, al massimo un quartino di dolcetto in due, in modo da non compromettere il ritorno.
Ma può essere scartato a cuor leggero un tagliere di salumi nostrani? E lascereste voi una bella bottiglietta di barbera frizzante ad immalinconirsi, tappata e sola con se stessa? 

Io no, ed M. nemmeno. L’ ordinazione dilaga sino al dolce ed al caffè. 
Gromit, legato alla sedia, si candida all’ Oscar per la parte del cane perfetto. Non chiede cibo, non si muove, non abbaia, non guaisce, non risponde alle provocazioni degli altri canini che gli transitano sotto il naso sberleffandolo. 
Ma si tratta solo di una meschina messinscena. M., purtroppo per lui, se ne renderà conto nel giro di pochi minuti.

La manfrina basta, però, per farci abbassiamo la guardia. Dopo caffè e conto, paghiamo; M., preso dalla compassione per il degno erede di Mario Merola, gli consegna un’intera porzione di focaccia farcita con il tacchino arrosto. 

Gromit passa al ruolo del cane da esposizione. Seduto, mastica aristocraticamente i piccoli bocconi che M. gli porge, senza nemmeno tentare di arraffare il resto della focaccia che pure si trova ad un millimetro dal suo tartufo. Per completare la scena, manca solo che ci inviti al bar per offrirci il digestivo.
M. si sdilinquisce in complimenti ed elogi; e mal gliene incoglie. 

Il tempo di ripartire, e Gromit mette in atto il piano che stava – evidentemente - covando sin da sabato scorso. Mentre l’ingenuo M. si distrae in una telefonata, intinge rapidamente le zampe in una pozza di melma e, con una repentina strambata, zompa addosso alla sua gamba sinistra.
La questione viene risolta con una serie di pattoni. I jeans di M., intanto, hanno assunto una tonalità mimetica.
Appena superato il Bric Ressonau, M. si autocostruisce lo strumento principe di qualsiasi oppositore di feroci fiere: la trappetta, che comincia a sventolare sotto il naso dell’ incauto latin lover.
Il quale fa i suoi conti e ricomincia a trotterellare in avanscoperta, meditando sull’ ingiustizia del mondo e preparando altri e più raffinati piani per futuri assalti.

Accuso M. di aver propinato al povero Gromit tacchino imbottito di chissà quali ormoni, rammentandogli che trattavasi peraltro di viveri a lui destinati dall’ amorevole mogliettina. Concludo con insinuazioni sul perché.

Arriviamo assetatissimi al Faiallo. Il bar del rattuso è in ristrutturazione. Il nuovo nome del locale, già iscritto sulle vetrate, lascia presagire il peggio: speriamo di non trovarci, al posto di un’ onesta trattoria, l’ennesima scelta di vita di qualche esistenzialista incapace.
Sono le 18. Incontriamo un ultimo gruppo di scout, stavolta di Torino. Non sanno dove stanno andando – ma, in fondo, è così importante?
In compenso, camminano con scarpe grunge slacciatissime e senza calze, manco stessero facendo skate in passeggiata a mare. Mi viene il magone.

Arriviamo al Turchino, dove, come un oasi in pieno Sahara, spicca la promettente insegna di un bar. Entro e ingoio due Moretti.
Scendiamo rapidamente sulla costa. Con un paio di gimcane arrivo a Pegli, dove deposito M. Giusto un paio d’orette di coda ed eccomi a Recco.

Un boccone ed a letto. Ho sete. Vado in cucina a bere. Gromit Iscariota è lì che dorme. Mi sente, apre un occhio, tira su un sopracciglio, fa uno sbuffo, e si rimette giù. Valli a capire, questi umani.




 

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