Apuane? No, grazie!
Si diceva,
una volta, che ai primi di novembre arriva l’Estate di San Martino. Il
dono di un ultimo scampolo di mitezza, arricchito da luce radente e splendore
dei colori autunnali, prima del periodo più buio e freddo dell’anno.
Per gli
anglofoni è l’Indian Summer. Io
l’aspetto regalandomi una settimana infernale. Passo continuamente e senza pace
di palo in frasca, salto vari pranzi e rimedio qualche cena solo grazie a non
raccontabili prepotenze sul povero Gromit, che giustamente considera gli avanzi
affar suo. Giovedì
compare un SMS di Piero, che propone un salto in Val Varaita. Non sono in grado
di pensare nulla di utile, quindi sintetizzo
“mi va bene dovunque, basta andare” e mi autoassegno il ruolo di bagaglio
appresso. Faccio solo notare che, col
buio alle 18 e 3 ore e mezzo di viaggio, c’è da partire ben presto. L’acuta
osservazione spinge Piero a dirottare sul Monte Forato, in Apuane. Apuane che,
per la verità, non mi convincono proprio. Le penso brulle e vicine al mare. Luoghi e
dislivelli evocano immagini di un me stesso miseramente arrancante su roventi quanto
interminabili pendii. Meglio, molto meglio, il nostro Appennino; e se la
questione è quella di vedere un po’ di roccia, le Alpi non sono tanto più
lontane. Mi dico che forse sono solo pregiudizi, e che vent’anni dopo una
comunque piacevole salita alla Pania della Croce vale la pena di tornare a dare
un’occhiata.
Il viaggio
non è tremendo; l’autostrada, però, è un salasso. In qualche modo arriviamo a Stazzema, lasciamo
l’auto e cominciamo a camminare.
La prima ora di percorso è del
tutto dimenticabile. Il bosco è un groviglio; l’umidità infastidirebbe un
sommozzatore. Solo alla Foce di Petrosciana
spuntiamo all’aperto. Colori e panorami prendono senso; ma siamo ad anni luce
da quel che si può vedere da un qualsiasi Caucaso o Ramaceto. Sarà che lo guardiamo
in controluce, ma anche il Procinto, che abbiamo appena superato, non mi appassiona. Scegliamo il più comodo sentiero
che pianeggia sino alla Casa del Monte, poi impenna di brutta maniera e in poco
tempo si mangia i 150 metri che mancano ancora alla cima. L’arco è davvero bello
ed imponente; lo superiamo e raggiungiamo la croce di vetta. Il panorama,
ahinoi, è invece modesto.
Mangiamo e cominciamo a scendere.
Piero si ferma a fotografare l’arco. Intanto, qualcuno mi chiama. Ad ore
dodici, cinquanta metri più in là, spunta Paolo (come dire il mio più caro e
vecchio amico). Controllo le avvertenze sul tubetto del gel energetico col
quale mi sono dopato un’ora prima. Le allucinazioni non sono contemplate né mi
risultano tra le scontate conseguenze della cervicale. Essendo sobrio concludo
che è tutto vero. Pacche sulle spalle, sorrisi, e cominciamo a discettare sull’infinito
mare delle casualità e delle causalità; concludiamo la filosofata con un selfie di
gruppo e ci diamo appuntamento lungo la discesa. E in effetti ci si rivede, poco
sotto la Foce. Chiacchieriamo del più e del meno, poi ci salutiamo
definitivamente (per oggi). Paolo e i suoi due amici vanno a pranzare in una
non meglio precisata bettola della zona. Sento, più che un nodo alla gola, un
groppo allo stomaco; ripenso al pranzo a base di gel e ai pasti saltati durante
la settimana, ma Piero non transige.
Ci infiliamo nella Fangorn apuana e a stento, slittando su muschi e lepeghi vari, arriviamo interi alla Toyota. Piero, incorruttibile, mi vieta anche una miserabile piccola alla spina e mi imbarca a bordo manu militari. Tento disperatamente scuse di tutti i tipi per costringerlo a fermarsi nei pressi di qualche bar, ma oggi non ce n’è per nessuno. Senza preoccupazioni di percorso apprezziamo il paesaggio, davvero brutto, della vallata. Un fosso profondissimo e umido come una fungaia irlandese. In confronto, la Valbrevenna sembra la California.
Ci infiliamo nella Fangorn apuana e a stento, slittando su muschi e lepeghi vari, arriviamo interi alla Toyota. Piero, incorruttibile, mi vieta anche una miserabile piccola alla spina e mi imbarca a bordo manu militari. Tento disperatamente scuse di tutti i tipi per costringerlo a fermarsi nei pressi di qualche bar, ma oggi non ce n’è per nessuno. Senza preoccupazioni di percorso apprezziamo il paesaggio, davvero brutto, della vallata. Un fosso profondissimo e umido come una fungaia irlandese. In confronto, la Valbrevenna sembra la California.
Il dramma finale si consuma,
però, a Recco. Lo sportello del frigo mi
fissa interrogativo, vuoto come il cervello del terzino destro della mia
squadra. Nulla di potabile, solo un residuo di Gewurztraminer. Poco male, c’è
sempre il bar sottocasa. Mi precipito
per le scale e imbocco deciso i portici… chiuso. Cerco di raccogliere l’ultimo
briciolo di dignità rimasto e torno mestamente a casa. Sotto lo sguardo
disgustato di Gromit, preparo un beverone allungando l’incolpevole bianco con
l’idrato di cloro che esce dal
rubinetto. Cerco nei recenti ripassi di
filosofia antica un perché a tutto questo. Trovo consolazione in Parmenide, il
cui insegnamento mi porta a concludere che la birra che non è, non essendo, nemmeno
può essere pensata; e che, quindi, tantomeno è pensabile il suo non essere. Ma, proprio mentre penso,
soddisfatto, a quanto la sofia sappia
lenire i mali dell’anima, (ferma restando la sete) ecco che squilla il
cellulare. E’ Paolo che, con fare serafico, mi comunica di aver usufruito nella
non meglio precisata taverna di primo, salumi e formaggi, dolce, caffè,
ammazzacaffé e fiasco di rosso diviso per tre alla vergognosa cifra di euro
dieci.
Torna lo stranguscione allo
stomaco. Apro la dispensa. Per fortuna c’è ancora un tubetto di gel energetico.
Lo ingoio, avidamente, e ci verso sopra il mio disperatissimo acquerellone.
Con me,
stavolta, le Apuane hanno chiuso per davvero
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