Alla cieca
Oggetto del contendere, le (sedicenti) “Alpi” Apuane.
S. le
magnifica, definendole “l’essenza stessa
della montagna” ; da parte mia decido di impiegare tutta la delicatezza del
caso e spiego che si tratta solo di immonde e sottoviluppate discariche
subsahariane di zetto, patetiche ed abusive caricature delle vere Alpi. Con
grande pacatezza preciso che, a me, il solo pensiero di andarci fa venire l’
orticaria, la rinite allergica, nonché il ballo di San Vito.
Dopo una
ratella durata decine di post, corroborati da svariate miriadi di foto (poco) dimostrative,
S. – che ha capito il problema – mi propone seraficamente di andare al Cavallo. Vado a
cercare in garage i vecchi album di francobolli. In fondo, un hobby non può mai
dirsi abbandonato del tutto, e ancor
oggi tra “Bolaffi” e “Alpi Apuane” trovo largamente più interessante il primo.
Alla fine,
non si sa bene come, dopo una serie di trattative
si opta per una genericissima sortita nell’ Appennino Tosco-Emiliano, che è distante
come l’ Aconcagua e basso come il Monte Esoli; ma al meteo non si comanda.
Partiamo,
così, all’avventura con destinazione da scegliersi strada facendo tra un
trittico da film di Dario Argento: Nuda,
Cusna e Pietra di Bismantova.
Poco prima
del Cerreto (e quindi al km 394 circa da Recco) M. telefona indispettito,
facendo notare che la Nuda interessava anche a lui e che ci saliamo sopra anche
lui vuol venire. Cerchiamo garbatamente
di spiegargli che si tratta di un toponimo meramente allegorico ma la frase lo
fa ulteriormente imbufalire e solo vaghe promesse di prossime gite
nell’adorata Val Mairenkova lo
rabboniscono quel tanto che basta a chiudere la comunicazione in modo civile.
Per evitar di peggio, scartiamo la prima destinazione e proseguiamo per nonsisadove.
Giusto per
aggiungere un pizzico di sale al nostro pellegrinaggio, abbiamo deciso di fare
a meno di ogni e qualsiasi supporto tecnologico diverso dalla tradizione
orale. Così, dopo aver deciso di puntare
al Cusna fioccano le più fantasiose illazioni sui mille e passa modi di
arrivare in vetta.
A forza di “m’han vusciu dì” raggiungiamo il paesotto natale di una
tremenda cacofonista berlusconiana, e il paese presso cui un mio cugino conduce
una sua personale guerra contro i cinghiali; alla fine di questo
prescindibilissimo sightseeing tour dell’agnolotto
una sterrata a dir poco sospetta ci scarica dritti dritti nel bel mezzo del
Bosco Atro.
Il posto è a
dir poco ignobile. Siamo in una forra larga si e no 20-30 metri sul cui fondo si adagia uno stupito laghetto
artificiale, che da anni ha fatto reclamo presso i competenti uffici di IREN
per essere trasferito in un posto più decente.
Come spesso
accade, nei momenti più bui i miracoli accadono. La Dama Galadriel della
situazione assume le sembianze di un tabellone ad uso merenderos che, senza
troppi giri di parole indica dove siamo:
Peggio per voi! |
E, diciamolo subito, c’è poco da stare allegri. Con un’astuzia da navigati homeless, riusciamo in modo alquanto artigianale a munirci di cartina (fotografiamo quella affissa) dalla quale si capisce benissimo che abbiamo scelto il peggiore tra tutti gli svariati approcci alla montagna.
Non ci
lasciamo scoreggiare: baldanzosi attacchiamo e vinciamo in una sola oretta di
strisciate il primo ostacolo, costituito da un bosco di fagus lepeghis, uscendo finalmente
a riveder le stelle.
Usciti dalla faggeta |
O, più precisamente, i nuvoloni che ineffabili si stanno addensando preparandoci la festa per l’arrivo in vetta.
S. e A.
sfrecciano su per il pendio e vanno a raggiungere sul cupolone sommitale una
comitiva di esterrefatti soci del CAI locale, i quali, in secoli di diuturna
frequentazione mai avevano visto nessuno spuntare da quella parte.
I più esperti
suggeriscono che il lambrusco sia adulterato; l’incombente minaccia di Gromit
tronca sul nascere ogni e qualsiasi discussione: tutti si mettono a paratia e
la vetta si spopola almeno finché il Merolone non viene securizzato con
apposita legatura.
La croce di vetta |
Dalla vetta vediamo chiaramente le dozzine di sentieri che si snodano piacevolmente sugli altri, bei, versanti della montagna e una deviazione che, opportunamente imboccata, avrebbe dato un minimo di senso al nostro giro.
Dopo un
frugale pasto e dopo aver dato fondo alla nostra immaginazione prima per
vedere e poi per riconoscere qualche
altra vetta, ci precipitiamo per lo stesso scosceso pendio rimbalzando
strisciando ruzzolando prima sui verticali prati della cuspide sommitale e poi
nel lepego del bosco.
Arrivati
dalla Zafira, Gromit trova finalmente una pozza di fango sufficientemente maleodorante
dove poter idoneamente intingersi: ciò fatto, si lancia sul povero S., in appassionatissime,
shakespeariane, effusioni .
Imbragato il malmostoso
quattrozampe risaliamo in macchina e dopo sole 4 ore siamo di nuovo a casa.
I numeri:
-
Ore di macchina 8
-
Percorso a piedi: ore 4.00
-
Dislivello 900
-
Sviluppo lineare cm. 35
-
Moretti
bevute 0
-
Gnocco fritto 0
Dove sta
l’errore?
Commenti
Posta un commento