Miguelòn sale al Penna.


L’ appuntamento è feroce. Ore 7.00 a Recco, poi ore 7.30 a Gattorna.
Sveglia alle 6.20, lavaggio sportivo, preparazione di borracciona contenente svariate diavolerie proibite sin dai tempi del caso Merckx, furto di merendine dei figli, caffè  e via.
Gromit, stavolta, sta punito e se ne resta a casa. Cerco di sfotterlo mostrandogli il guinzaglio per poi nascondermelo dietro la schiena. Ineffabile, pone fine alla discussione girando le chiappe e attaccando con fare serafico gli avanzi di fusilli col ragù della sera prima.
P., suo fidanzato prima dell’ esplodere dell’ insana passione per S., constata sollevato che nel bagagliaio non v’è traccia del Casanova dell’ Appennino. Sgommiamo su per la 333 ed arriviamo, puntuali, all’appuntamento.

A Gattorna non c’è anima viva. I tumbleweed rotolano lungo main street;  qualche persiana solitaria sbatacchia qua e là. Il pozzo a vento cigola. Oggi, però, invece del  buon vecchio Clint arriva M., con un disgraziatissimo cannolo alla crema al posto della Colt. Dichiara, stizzito, che il cannolo è immangiabile. Parte immediata la cerca di un bar per un caffè ed un adeguato rinforzino alla colazione in PVC.
Intanto arriva S. Ci sbracciamo, ma non c’ è verso. Rapido inseguimento sistemazione auto partenza.  Voliamo al Bocco e di lì all’ attacco del sentiero, poco sotto il Passo del Ghiffi, dove nella cronoscalata del 1994 un insospettabile Evgenij Berzin diede la paga all’ impassibile Miguelòn.

Dopo una prima salitella per staccarsi dalla strada, il sentiero sonnecchia con un traverso a mezzacosta
sino al Passo della Scaletta, che passo non lo è nemmeno per un po’ perché lì, omen nomen, attacca una rampa breve ma feroce nella miglior tradizione delle classiche di primavera.


Ingurgito varie gollate della bevanda magica, ma dopo pochi attimi mi sento come la buonanima di Simpson sul Ventoux.  L’ effetto petardo svanisce e capisco subito che devo inventarmi qualche espediente per rallentare il gruppo; lo trovo nella mia fedele Nikon. Mi mostro interessatissimo a scattare ogni e qualsiasi tipo di foto, se necessario anche di fiori o di insetti, quando in realtà ne possiedo già centinaia fatte proprio qui.
Superato l’ erto e quanto mai faticoso pendio, spuntiamo al Passo dei Porciletti dove, deogratias, la questione spiana. M. scruta il terreno con sguardo esperto, immaginando futuri boleti.


Parlando del più e del meno spuntiamo all’ Incisa dove finalmente il Navarro si ricorda di me e mi sussurra all’ orecchio di adottare la sua insuperabile tecnica: salgo col mio passo - vado piano ma non mi fermo mai. Gli altri mi staccano impietosamente. Mi chiedo dove ho sbagliato. Sbuco in cima mentre S., dopo doccia, aperitivo e pranzo, riparte in cerca di un laghetto che evidentemente non può trovarsi in vetta.

Al traguardo, niente spumante e niente miss. Solo Polase e due arzille sessagenarie che mi guastano il pranzo chiedendomi quale passeggiata potrebbero mai fare una volta discese dalla cima. La più svelta mi rifila un improbabile dépliant anni ’70 con in copertina gli ombrelloni di Paraggi ed in quarta la plastigrafia di rito più una delirante mappa simile a quelle che stavano appese una volta vicino ai bagni delle carrozze ferroviarie. Cerco di dare qualche dritta, senza troppa convinzione. Quando le due cominciano a divallare, con un urlaccio le diffido a stare attente a non cacciarsi nei guai.  Mi chiedono, allibite, se sia del soccorso alpino. Mi guardo la trippa e mi vien da piangere. Certo che no, sono solo un dannato astronauta (o un ciclista?).

Caracolliamo verso l’ Incisa. Troppo veloci. Le cugine Mortimer sono in agguato a pochi passi dal valico, a guardar fiori. La capogita mi diffida: lo sa lei che fiore è questo? Non sia mai detto. Venga a vedere. Senz’occhiali non vedo nulla! (e la cartina, allora?). L’ imperterrita mi declama un accartocciato nome latino, che a suo dire significherebbe che la piantina ha “n.” foglie, e cioè che ne ha un numero variabile ed imprecisato.  Una sorta di millepiedi vegetale, insomma. Quando è ormai convinta di avermi umiliato, la punisco. Sfoggio la mia cultura umanistica, precisando che in greco antico énea significa nove e che quindi tale dev’essere il numero delle incolpevoli foglioline. Le due, basite dall’ imprevisto incontro con il mio genio leonardesco completano il siparietto chiedendomi se il pianoro all’ attacco del sentiero (che misura, ad occhio, almeno un migliaio di metri quadri) sia un’antica carboniera. Nego recisamente, quasi certo che la Ruhr non sia stata nel frattempo spostata a Santa Maria del Taro. Le due attempate signore, sconfitte, imboccano mestamente la via del ritorno verso la forestale. Soddisfatto della deterrenza, spero non portino foto segnaletiche ai carabinieri del posto.
Un po’ di nubi temporalesche provocano un breve dibattito sul da farsi. Passare da Pratomollo o andar giù dritti? P. che deve scontare un casino combinato in una gita estiva, si rimette. M. ed io saremmo per non rischiar trone d’ acqua. S. si rassegna alla scalcagnataggine della compagnia.

Lusardi, riaperto, promette fiumi di Moretti e – finita la bomba – è proprio il miraggio di gorgoglianti ruscelli di fresca e frizzante baffodoro a spingermi verso il traguardo. Mettiamo il 55x11, affrontiamo stoicamente la variante bassa e, in men che non si dica, eccoci all’ auto.
L’ordinazione descrive bene lo stato d’animo del gruppo: una Moretti da 66 (ok, lo ammetto… ero io), una da 33, una sanguinella ed un bicchiere di gutturnio (???!!!), cui si aggiunge un’ inopinata fetta di torta di riso, alquanto rinsecchita e  di un singolare colore giallo-verdino che mi fa ipotizzare provenienza nipponica.
Cambio di macchine, sgommiamo per la 333 ed eccoci a Recco.

Arrivo a casa. Mia figlia studia. Marina la aiuta. Gromit sta guardando un documentario.
Il premio di consolazione è una Fischer. La apro e ripenso alle cugine Mortimer. Loro si che mi apprezzavano.

 

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